La rivoluzione annunciata da Google
A maggio del 2019 Google ha annunciato con un post sul blog ufficiale l’intenzione di bloccare i cookie di terze parti sul suo browser Chrome a partire dal 2022. L’annuncio, per quanto non del tutto inatteso, ha avuto l’effetto di una bomba nel mondo del digital advertising.
E’ vero che anche Apple si sta già muovendo in questa direzione con le nuove impostazioni di base di Safari, ma Chrome è il browser utilizzato da circa il 60% degli utenti web. Inoltre Google non è solo titolare di un browser di navigazione, è anche il principale attore dell’advertising nel mondo, e può contare su una mole di dati di prima parte incomparabile (forse solo Facebook e Amazon possono competere su questo piano). Questa mossa è stata quindi vista da molti come una strategia per spostare ulteriormente gli equilibri del mercato a favore dei grandi operatori e dei loro walled garden.
In poche parole, il blocco dei cookies di terze parti impedirà che vengano inviate informazioni sulla sessione di navigazione di un utente a piattaforme terze, esterne al dominio. Questo meccanismo è largamente utilizzato oggi dalle piattaforme di advertising ad asta (Programmatic e Real Time Bidding), che basano l’ottimizzazione delle offerte, la definizione dei target di offerta e retargeting sulle informazioni di profilazione e navigazione in gran parte acquisite attraverso i cookies.
Ma anche i sistemi di attribuzione delle conversioni su cui si basano i processi di affiliazione sono principalmente basati su questa tecnologia. L’impatto sull’intero sistema dell’advertising dunque rischia di essere pesantissimo.
Dopo il terremoto scatenato dall’annuncio si è aperto un ampio dibattito. Google stessa si è sentita in dovere di precisare la sua posizione, chiarendo di non avere intenzione di distruggere l’ecosistema dell’advertising digitale. In un post dell’agosto 2019 Justin Schuh (Chief Engineer di Crhome) scrive che Google è consapevole dell’importanza dell’advertising per garantire la continuità di un web vitale:
“blocking cookies without another way to deliver relevant ads significantly reduces publishers’ primary means of funding, which jeopardizes the future of the vibrant web. Many publishers have been able to continue to invest in freely accessible content because they can be confident that their advertising will fund their costs. If this funding is cut, we are concerned that we will see much less accessible content for everyone. Recent studies have shown that when advertising is made less relevant by removing cookies, funding for publishers falls by 52% on average.”
Viene quindi presentato il progetto di un set di open standard da condividere con gli altri operatori che viene denominato Privacy Sandbox. Il cui obiettivo dichiarato è di “creare un ecosistema web prospero e rispettoso degli utenti e privato per default”.
Come ha risposto il mercato
A distanza di quasi due anni dall’annuncio, e con il 2022 che si avvicina a rapidi passi, mentre i principali attori del mercato stanno cercando di sviluppare soluzioni alternative basate sull’Intelligenza Artificiale, sul contextual advertising e su PII graph connesse agli indirizzi email, gli advertiser, almeno in Italia sembrano essere ancora poco consapevoli della situazione.
Una ricerca presentata dall’Osservatorio del Politecnico all’inizio di marzo 2021 rivela che solo il 22% delle aziende investitrici interpellate ha definito almeno “rilevante” il proprio grado di conoscenza della questione. E se da un lato il 51% delle aziende sostiene di essersi attivato per cercare una soluzione alternativa, in realtà solo il 9% afferma di essere effettivamente in fase di test per nuove soluzioni.
Cambio di paradigma
Nel frattempo Google ribadisce la propria posizione, chiudendo su molte delle possibili strade in discussione in un nuovo post pubblicato il 3 marzo del 2021 a firma di David Temkin (Director of Product Management, Ads Privacy and Trust). L’affermazione più pesante che Temkin fa nel suo articolo è la seguente:
“People shouldn’t have to accept being tracked across the web in order to get the benefits of relevant advertising. And advertisers don’t need to track individual consumers across the web to get the performance benefits of digital advertising.”
Questa presa di posizione rovescia totalmente il paradigma sulla base del quale il mercato ha costruito i suoi processi e la sua catena del valore negli ultimi dieci anni.
Non vogliamo entrare qui nella discussione sul ruolo di Google in questa rivoluzione e sull’evidente conflitto di interessi nel quale agisce. Nemmeno intendiamo fare una valutazione tecnica dell’approccio proposto con Privacy Sandbox in confronto con le altre soluzioni su cui stanno lavorando altri operatori del mercato.
Non possiamo però non notare che il mondo dell’advertising online si sia concentrato negli ultimi anni quasi esclusivamente sui dati e sulla tecnologia, considerando gli utenti come semplice materia prima (non è per nulla un caso che la metafora più spesso utilizzata per definire i dati è “il nuovo petrolio”). Gli utenti sono stati trattati come una massa indistinta di “probabilità di conversione” anziché individui con i quali costruire una relazione. I brand e gli operatori hanno visto e sfruttato l’opportunità di trarre ricchezza da questo nuovo oro, pensando di poterlo fare senza cedere in cambio alcun valore. Ma un sistema così disequilibrato è inevitabilmente destinato a collassare.
L’errore che i brand non devono fare è considerare la “rivoluzione cookieless” solo come una questione tecnica, alla quale è necessario trovare risposta con sistemi alternativi per poter continuare a tracciare i comportamenti degli utenti in modo più o meno consapevole esattamente come prima. La questione sul tappeto è molto più di sostanza:
“First party relationships are vital. Developing strong relationships with customers has always been critical for brands to build a successful business, and this becomes even more vital in a privacy-first world”
Il tramonto dei cookies è potenzialmente un evento traumatico, ma è anche una grande opportunità di reale cambiamento di paradigma: come sempre saranno i più attenti e più veloci a cogliere la novità ad ottenere i più grandi vantaggi. Costruire una relazione diretta con i propri clienti, basata su un reale scambio di valore è la sola strada che garantirà alle aziende di crescere sul web e a superare la crisi.
Costruire una “first party relationship” significa costruire una propria audience, una comunità di persone realmente interessate a ciò che l’azienda racconta. Puntare sui dati di prima parte, o ancora meglio sugli zero party data, comporterà investimenti in tecnologie e strumenti per gestire e ottimizzare le informazioni, ma significherà soprattutto investire in strategie di comunicazione che siano finalizzate ad acquisire il consenso e l’interesse del pubblico. Bisognerà produrre e pubblicare contenuti rilevanti e di reale valore per il proprio pubblico e poi creare engagement. La parola chiave sarà sempre più “guadagnarsi l’attenzione“, e sarà necessario farlo in prima persona. Ma allora le aziende devono trasformarsi in editori, in media company? Non più di quanto si siano dovute trasformare in agenzie creative per inventare storie e messaggi pubblicitari. Le aziende devono continuare a fare il loro mestiere di realizzare prodotti e servizi che rispondano alle esigenze dei loro clienti, perché se manca questo elemento non c’è comunicazione che possa funzionare. Ma devono imparare a mettersi in gioco, a creare valore per i loro clienti, ricominciare a considerarli veri interlocutori anziché una massa inanimata di materia prima da estrarre.