Google e il diritto all’oblio: che cos’è, come funziona e normativa in Italia

Con la storica sentenza “Google Spain SL and Google Inc. v Agencia Española de Protección de Datos (AEPD) and Mario Costeja González” del 2014, la Corte di Giustizia Europea ha stabilito il diritto per gli utenti Google di chiedere direttamente al motore di ricerca la rimozione dalle proprie pagine di link a notizie e/o contenuti ritenuti offensivi, lesivi o scorretti, e che non sono più rilevanti ai fini del diritto di cronaca. Più di recente, la Corte si è espressa nuovamente su questa materia, definendo ulteriormente ed ampliando il campo di applicazione del diritto all’oblio. Scopriamo quali sono le novità introdotte e quando si applica questo diritto.

di Dayone Magazine
Google e il diritto all'oblio: che cos'è, come funziona e normativa in Italia

Google dovrà rimuovere immediatamente contenuti e notizie riguardanti gli individui residenti nei 27 Paesi comunitari, nel caso questi siano in grado di dimostrare che tali informazioni sono inesatte o lesive della propria reputazione online: questo, in sostanza, il contenuto di una storica sentenza del 2014 della Corte di Giustizia Europea (CGE), in occasione della quale è stato definito e reso operativo il cosiddetto “diritto all’oblio” all’interno della legislazione europea.

Più di recente, l’organo giudiziario dell’Unione si è espresso nuovamente in merito alla questione, sancendo che la vittima delle informazioni inesatte potrà presentare domanda di deindicizzazione senza bisogno di procedere preventivamente per vie legali, o internare cause giudiziarie nei confronti dell’editore del sito web responsabile per la loro diffusione. Per godere di questo diritto basterà infatti convincere Google dell’inesattezza, anche parziale, delle informazioni contenute nelle risorse incriminate.

Un passo avanti nella tutela del diritto alla privacy degli utenti del più famoso motore di ricerca, che non potrà più sottrarsi dal riesaminare -ed, eventualmente, cancellare- informazioni ritenute offensive, scorrette o lesive della reputazione online dei soggetti che ne facciano richiesta.

In questo articolo, scopriremo che cos’è il “diritto all’oblio”, come è cambiato negli ultimi mesi e, soprattutto, come perché è strettamente correlato con il diritto di cronaca. Infine, vedremo come e quando può essere applicato.

Che cos’è il diritto all’oblio?

Per capire origini e importanza del cosiddetto “diritto all’oblio”, dobbiamo fare un passo indietro fino alla nascita e allo sviluppo di Internet e dei principali social network. Se, da un lato, questi ci hanno consentito di avere un punto di accesso preferenziale ad una mole di informazioni e opportunità inimmaginabile fino a qualche decennio fa, dall’altra sono sorti diversi quesiti circa la tutela dei dati personali degli utenti dello spazio digitale.

In particolare, ci si è cominciato a chiedere se, in un’epoca di contenuti virali e rapida diffusione delle informazioni, fosse possibile garantire il diritto di un individuo ad “essere dimenticato”, soprattutto qualora questo fosse stato in passato coinvolto in fatti di cronaca, o fosse stato oggetto di notizie poco veritiere o lesive della sua reputazione digitale.

In questa accezione il diritto all’oblio si intreccia indissolubilmente con quello all’informazione, da sempre considerato, perlomeno nella giurisprudenza classica, come prevalente. Secondo il diritto di cronaca, le fonti di informazione (nel nostro caso gli editori delle testate digitali) possono disporre liberamente dei dati personali di una terza parte coinvolta in un fatto di rilevanza pubblica, dati che altrimenti possono essere trattati solo se ne diamo il consenso.

Il problema sorge però quando questo diritto di cronaca, alla cui base vi è l’interesse della collettività di conoscere un determinato fatto circoscritto nel tempo e nello spazio, si affievolisce con la perdita di rilevanza della notizia, finché il nesso tra diritto all’informazione e interesse pubblico non scompare definitivamente.

Ed è proprio qui che entra in gioco il diritto di un individuo coinvolto in una determinata notizia di richiedere ai siti web che la hanno precedentemente diffusa – e soprattutto, come vedremo, a Google – la rimozione dalle varie pagine web di precedenti informazioni potenzialmente lesive o incorrette relative ad un avvenimento non più rilevante.Infatti, il diritto al trattamento dei dati personali, precedentemente dedotto dal diritto di cronaca, viene a cadere e torna nella mani del soggetto interessato.

In questo senso, il diritto all’oblio rientra nel campo del diritto alla tutela della vita privata e della privacy previsto dall’art. 8 della CEDU (la “Convenzione europea dei diritti dell’uomo”), e viene tutelato sul territorio europeo da diversi articoli del GDPR (“Regolamento generale sulla protezione dei dati”).

Il problema sorge però nel momento in cui su Google, e su internet in generale, non esiste un meccanismo di rimozione automatica dei dati incriminati, e la deindicizzazione di una notizia è l’unico meccanismo che ne garantisca la sua rimozione definitiva. Ecco perché, sullo spazio digitale, è necessario rivolgersi direttamente al motore di ricerca – e dunque ad una parte “terza” rispetto alle vicende – per poter godere effettivamente del diritto all’oblio.

Ecco dunque che entra in gioco la storica sentenza della Corte di Giustizia Europa C-131/12, anche nota come “Google Spain SL and Google Inc. v Agencia Española de Protección de Datos (AEPD) and Mario Costeja González”, che sancisce come «il gestore di un motore di ricerca su Internet è responsabile del trattamento da esso effettuato dei dati personali che appaiono su pagine web pubblicate da terzi».

In poche parole, a seguito di questa sentenza, la parte lesa può presentare domanda di cancellazione dei dati incriminati presenti in rete direttamente al motore di ricerca, qualora questi abbiano smesso di adempiere alla loro originaria funzione informativa.

Ovviamente, non basta lamentare la violazione del proprio diritto “ad essere cancellato” per ottenere la rimozione delle informazioni ritenute come lesive. È fondamentale capire più nel dettaglio quando si applica il diritto all’oblio e come può essere esercitato.

Quando si applica il diritto all’oblio?

Per capire quando si applica il diritto all’oblio dobbiamo affidarci all’articolo 17 del GDPR, che indica tutte le circostanze in cui la parte lesa ha diritto di richiedere la cancellazione dei propri dati personali.

In particolare, deve verificarsi almeno una di queste condizioni:

  1. Il richiedente abbia revocato il consenso precedentemente fornito al trattamento dei dati;
  2. Si sia opposto al trattamento dei dati (senza aver mai dato alcun consenso) e non sussista alcun motivo legittimo per continuare a trattenerli;
  3. I dati sono stati trattati in modo illecito o non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali furono raccolti o trattati:
  4. La cancellazione è necessaria per rispettare una norma o un obbligo legale a livello europeo o nazionale;
  5. L’ente/organizzazione ha raccolto i dati personali per scopi di marketing.

Al contrario, il diritto alla cancellazione non sussiste qualora il trattamento dei dati sia funzionale al rispetto del diritto alla libertà di espressione e d’informazione, oppure a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica. Il problema deriva proprio dalla vaghezza di questi principi e dalla difficoltà nel bilanciare il diritto di cronaca con quello alla privacy.

Per questo motivo, la sentenza della CGE del 2014 ha contribuito a definire meglio le caratteristiche del diritto all’oblio in rapporto al diritto di cronaca, in particolare con la pubblicazione delle Linee Guida del Gruppo di lavoro “Articolo 29” nelle quali sono contenuti 13 criteri orientativi indirizzati alle autorità garanti nazionali chiamate a gestire i reclami riguardanti le richieste di deindicizzazione. Tra questi troviamo il fatto che il richiedente sia o meno un personaggio pubblico, la minore età dell’interessato, il riferimento alla sua vita professionale o personale, ed il collegamento del risultato di ricerca con informazioni che recano pregiudizio alla persona o alla sua sicurezza.

Infine, con la sentenza del 24 settembre 2019 (caso C-507/17), anche nota come Google LLC contro Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL), la Corte UE ha altresì precisato che il gestore di un motore di ricerca non è obbligato a effettuare la rimozione dei dati in tutte le versioni del suo motore di ricerca, ma solo nelle versioni del motore di ricerca corrispondenti agli Stati membri dell’Unione Europea.

Come esercitare il diritto all’oblio?

Per quanto riguarda l’esercizio concreto del diritto all’oblio, un utente che si ritenga parte lesa può procedere essenzialmente in due modi:

  1. Richiesta di deindicizzazione direttamente al motore di ricerca (nella maggior parte dei casi, Google), in quanto titolare del trattamento dei dati. Tale richiesta può essere presentata attraverso l’apposito modulo messo a disposizione dallo stesso gigante di Mountain View. Qui l’utente dovrà fornire sia l’URL specifico in cui si trovano i contenuti di cui si desidera la rimozione, così come una descrizione di come i contenuti sono correlati all’utente e il motivo per cui desidera la rimozione dai risultati di ricerca di Google. Dopodiché, la richiesta sarà riesaminata manualmente, seguendo alcuni criteri specifici elencati qui.Qualora la risposta del colosso di Mountain View dovesse tardare o la richiesta dovesse essere rigettata, sarà possibile presentare un reclamo al Garante Privacy, oppure fare ricorso dinanzi all’autorità giudiziaria.
  2. Richiesta di cancellazione delle informazioni pregiudizievoli ad ogni singolo sito che ha concorso alla loro pubblicazione: questo ulteriore passaggio, viene consigliato dal momento in cui Google può sì deindicizzare i siti contenenti i dati incriminati (ovvero non compariranno più nei risultati di ricerca per una determinata query), ma questi resteranno comunque ancora all’interno dei siti che li avevano in primo luogo pubblicato, dove saranno ancora consultabili.

Diritto all’oblio: cosa cambia con l’ultima sentenza della Corte di Giustizia Europea e con la nuova normativa italiana in materia

Come avremo potuto capire, la normativa concernente il diritto all’oblio è in continua evoluzione, e lo scopo ultimo è sempre quello di bilanciare al meglio il diritto all’informazione con quello alla protezione dei dati personali.

Questo è la motivazione alla base della nuova sentenza della Corte Europea, che qualche mese fa si è espressa di nuovamente in merito al diritto all’oblio, rafforzandone operatività e campo di applicazione.

In particolare, la corte è stata chiamata ad esprimersi sul caso di una coppia tedesca impegnata in una società di investimento, che aveva precedentemente esposto al motore di ricerca una denuncia di rimozione per alcuni contenuti (inclusivi di immagini poco lusinghiere) pubblicati da un sito di informazione americano, nei quali venivano criticati sia il loro modello di business che il loro stile di vita, ritenuto dal tabloid come “dissoluto”. Informazione che, secondo la coppia, sarebbero state poco veritiere.

Richiesta che era stata negata dal colosso di Mountain View in quanto non sarebbe stata precedentemente chiarita la non accuratezza o falsità delle informazioni presenti negli articoli, e successivamente presentata sia al tribunale di Colonia che alla Corte federale di giustizia, che aveva poi concluso con il rimettere al giudice europeo la decisione ultima sul caso in questione.

Le sorti della coppia si sono ribaltate proprio in questa sede, con la sentenza C-460/20. Infatti, secondo la Corte, la rimozione dei dati incriminata «non è subordinata alla condizione che la questione dell’esattezza del contenuto indicizzato sia stata risolta, almeno provvisoriamente, nel quadro di un’azione legale intentata da detta persona contro il fornitore di tale contenuto». In poche parole, ai fini della rimozione non sarà più necessario ottenere la sentenza di un giudice che predisponga la rimozione dei contenuti offensivi, lesivi o scorretti, ma basterà che il possessore dei diritti su tali contenuti fornisca una spiegazione plausibile e quanto più possibile completa sul perché le informazioni pubblicate sarebbero inesatte o fuorvianti.

Parallelamente, il Decreto legislativo del 10 ottobre 2022, attuativo della legge n.134 del 27 settembre 2021 (la cosiddetta “Riforma Cartabia del processo penale”), è entrato in vigore all’interno dell’ordinamento giudiziario italiano il “Diritto all’oblio degli imputati e delle persone sottoposte ad indagini”, ovvero la “possibilità per gli individui nei cui confronti siano stati pronunciati una sentenza di proscioglimento o di archiviazione di richiedere che sia preclusa l’indicizzazione o che sia disposta la deindicizzazione, sulla rete internet, dei dati personali riportati nella sentenza o nel provvedimento”.

In conclusione, la recente decisione della Corte di Giustizia Europea (e, su scala nazionale, la normativa italiana sul diritto all’oblio degli imputati) ha contribuito a ridefinire in maniera concreta l’operatività del diritto all’oblio, nonché la portata degli obblighi imposti rispettivamente alla “vittima” e al gestore del motore di ricerca. Un passo avanti non da poco, che apre nuovi spazi di discussione all’interno del dibattito sulla sicurezza dei dati immessi in rete e sulla tutela della reputazione online.

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